IL LINGUAGGIO DELLA POLITICA E LA DERIVA DELLA LINGUA

Il linguaggio è pregno di solecismi e strafalcioni. Maltrattare l'idioma nazionale, purtroppo, pare che sia diventato un vero e proprio vezzo linguistico. Forse a qualcuno converrebbe, di tanto in tanto, ricominciare a studiare la lingua italiana.

 

NARDO' (Lecce) - Da più parti si evidenzia, con doverosa pudicizia, che il linguaggio dei politici sia diventato più astruso e artificioso, ma anche, e soprattutto, più incline all'inosservanza delle regole morfosintattiche e grammaticali, e che l'ironia abbia perso il diritto di cittadinanza attiva.

Il linguaggio della politica, dunque, appare malato, gravemente malato, e la malattia, ancorchè negata dall'infermo, è diventata talmente visibile che gli stessi specialisti, nonostante il disarmante ottimismo, ritengono indifferibile il ricorso generalizzato ad un'appropriata terapia farmacologica.

Si invoca uno stile comunicativo diverso, più diretto e anticonvenzionale. Si chiede il ripristino del primato della politica, come ricerca e affermazione dell'interesse generale. Si auspica un clima politico più sereno e costruttivo, privo della rissosità da ballatoio affermatasi negli ultimi anni. Si spera, infine, che la politica si arricchisca di nuove motivazioni ideali e dimostri di saper esprimere cultura e moralità.

Sappiamo bene che l'essere umano sopporta malvolentieri le informazioni sgradevoli.

Per evitare di mettere in crisi le nostre esigenze più radicate e profonde, preferiamo costruire, come dice il padre della psicoanalisi Sigmund Freud, una sorta di razionalizzazione che ci renda la cosa più sopportabile, oppure, come sostiene lo psicologo sociale Léon Festinger, impegnarci a ridurre la dissonanza cognitiva.

In ogni caso, nonostante gli accademici insegnamenti, è bene ricordare che la verità è spesso d'intralcio alle relazioni sociali: bisogna attutirne le punte infuocate, attenuarne il mordente, ammorbidirla con l'unto della convenzione.

Ovviamente, non è mai opportuno superare i limiti imposti dal buonsenso e cadere nell'ipocrisia, ovvero giustificare, come ebbe a dire Michele Mirabella, riferendosi al Senatùr, finanche la prosa approssimativa, sbilenca, sonora di vernacolari dissonanze, la grammatica rudimentale, la sintassi alla Tarzan e il lessico da piazzista.

"Dal politichese al politicoso", anche la grammatica è diventata "populista". In "Volgare eloquenza" Giuseppe Antonelli analizza così com'è cambiata (in peggio) la lingua della politica dalla prima alla terza Repubblica. Obiettivo principale: puntare sul "rispecchiamento" degli elettori che si ritrovano in chi parla sgrammaticato, con volgarità o per luoghi comuni. Così "nel momento stesso in cui si mitizza il popolo sovrano, in realtà lo si tratta come un popolo bue"

 Un vocabolario sempre più ristretto, discorsi fatti in parole davvero povere , con molte frasi fattemotti alla moda, sfondoni, parolacce, formulette trite non da salotto ma da tinello tv.

Un italiano grossolano, banale, elementare, quasi infantile che moltiplica parole vuote ma all’occorrenza anche gli strafalcioni. La crisi della politica sta dentro la crisi della sua lingua che cambia. Male. Di più: di male in peggio. Berlusconi, colui che come al solito tutto comprende, è stato solo l’inizio, ma in realtà alla fine è l’alfa e l’omega del nuovo idioma. Una noncuranza nei confronti delle regole delle scuole elementari, ma anche nei confronti dell’aderenza alla realtà e del senso delle proporzioni: è così che anche la grammatica è diventata populista, è così che dal politichese si è passati al politicoso

 

 Il linguista Giuseppe Antonelli, in Volgare eloquenza (Collana Tempi nuovi di Laterza, 144 pagine, 14 euro). Un saggio essenziale, nel senso che toglie il superfluo: con una forma leggera, scorrevole, ironica, Antonelli dà un colpo secco al tavolo stile saloon dei western per scoprire le carte della lingua dei politici della Terza Repubblica. Carte che, nonostante i bluff, non sono esattamente quattro assi.

 

 

 

Il titolo del libro ribalta quello di un’opera (De vulgari eloquentia) con cui Dante certificava che ormai il volgare era “pronto” per sostituire il latino nell’uso corrente perché era “popolare”. Ora, spiega Antonelli, questo concetto è stato gualcito, fino ad uscirne accartocciato: “Oggi l’eloquenza di molti politici può essere definita volgare proprio a partire dall’uso distorto che fa della parola e del concetto di popolo”. Non più popolare, quindi. Semmai “nel momento stesso in cui si mitizza il popolo sovrano, lo si tratta in realtà come un popolo bue”. Ci si rivolge al popolo lisciandolo ma parlandogli come a un bambino abbassando sempre di più il livello. Con parole terra-terra, da poppante (vaffanculo, vergogna, basta, tutti a casa): “E’ uno schifo”, “è infame”, “siamo stufi” dice il leader della Lega Nord Matteo Salvini quasi ogni giorno quasi su ogni argomento, dalle pensioni alla difesa dell’olio pugliese. O viceversa con espressioni così universali da assomigliare alla pace nel mondo auspicata dalle concorrenti di Miss Italia (andiamo avanti!, verso il futuro, un futuro meraviglioso, pieno di sfide, sfide che vinceremo, ché siamo tantissimi). “Si può fare di più e meglio, facciamolo insieme – ha detto Matteo Renzi durante la direzione del Pd di dieci giorni fa – L’Italia ha bisogno di una comunità politica che abbia al centro il futuro dei figli”.

 

 

Insomma, si è stanchi dei solecismi e degli strafalcioni. Maltrattare l'idioma nazionale, purtroppo, per molti politici, compresi, ovviamente, i ministri della Repubblica e i Segretari di partito, pare che sia diventato un vero e proprio vezzo linguistico.

Forse a qualcuno, e in particolare a coloro che rappresentano l'Italia e gli interessi nazionali, converrebbe, di tanto in tanto, ricominciare a studiare la lingua italiana, sia perchè lo studio non ha mai fatto male a nessuno, sia perchè si potrebbe beneficiare, in ogni caso, della consueta comprensione popolare e dell'indulgenza che normalmente viene riservata ai somari.

Angelo Losavio